Viaggio in Etiopia

 

Image

 
 
Se in Turchia l’età media è di 28 anni, qui è sicuramente di 20.

Le strade sono piene di bambini che ridono senza animatore, senza giocattoli. Punto l’obiettivo della mia digitale su di loro e si trasformano in attori, si assiepano festosi, mi tendono la mano, si mettono in posa, la vita è il loro giocattolo, come solo i bambini sanno fare, come noi adulti non sappiamo fare più, come ci hanno costretto a non fare più.

Image

Image

 
La vita come occasione di gioco.
 
Una signora ha portato con sé dall’Italia giocattoli che ai nostri bambini non interessano più, li ha portati per darli ai bambini di qui. Guardano, toccano, perplessi, incuriositi: i loro giochi sono senza giocattoli, giocano con le pietre, i rami degli alberi, con gli animali, fra loro, giocano, inventano.
 

Gioco come sorpresa, sfida, curiosità, attese.

Image

Image

 

Le donne sorridono furtive,

Image

ti guardano dritto negli occhi, il loro corpo sa cosa è la fame, non sa cosa è la dieta, hanno corpi dalle forme sode, a 14 anni fanno figli.

A Catania vedo donne incinte ogni tanto, di rado, i figli sono impedimenti, non ti permettono di fare carriera, viaggiare, comprare, gareggiare.
 

E poi costano.

Giorgia Meloni ministro per politiche giovanili, in una recente intervista ha detto:"La gente non fa più figli non perchè non li voglia ma perchè li considera un lusso". 

 
Qui vedi bambini dappertutto, nelle strade, nelle campagne; il più delle volte pensi di essere solo, cammini in grandi solitudini, grandi distanze poi all’improvviso te li vedi spuntare da tutte le parti per venderti qualcosa, per sfotterti, per ridere, affamati e semplici.
 
Penso a quel fiume di stronzetti che dilagano di Sabato pomeriggio in via Etnea, i loro sorrisi inebetiti, i jeans tagliuzzati, la frangetta, vestiti di firme, occhiali, cappellini, orologi, telefonini, scarpe, magliette, ciondolano con le trippe di fuori, tette e ombelichi in mostra, chiodi avvitati nelle narici, nelle orecchie, una di queste negre m’incuriosisce molto di più di questo penoso travestimento che fra non molto non arraperà più nessuno.
Fare l’amore è il divertimento di tutti, la grande differenza è che il mio divertimento finisce con il divertimento, per loro il divertimento genera gravidanze.

Il governo cerca di frenarli, pubblicizza gli anticoncezionali.

Image

“Fate l’amore con la pillola, mettetevi il preservativo, irroratevi con lo spermicida, prevenite con la spirale”.
Fra non molto i bambini saranno pochi, troppo amati, non spunteranno ridendo da tutte la parti come fanno ora.
Ma che vita è una vita, una società senza bambini, per chi, per cosa vale la pena di lottare, di vivere?
Le condizioni di lavoro sono infinitamente più dure che da noi, ho visto cantieri con ponteggi in cui la sicurezza è nulla, le donne portano pesi che per noi sarebbero insostenibili, la gran parte specie nelle campagne cammina scalza, come da noi settanta anni fa, con le gambe nude (gli uomini), ma se faccio il confronto con le facce che vedo sfilare nelle nostre città, attraverso i finestrini degli autobus, l’espressione rassegnata che abbiamo tutti, chiusi nelle nostre macchine in fila, in attesa davanti ai semafori, fermi nel traffico, ho la sensazione che loro abbiano un diverso atteggiamento verso la vita.

Ed essere madre è come ovunque tenerezza, protezione, amore indiscutibile.

Image

Dimentico, voglio dimenticare le mamme che uccidono a coltellate i figli, chissà cosa sperano di trovare dopo avere ucciso.
Per me essere madre è quest’immagine, qualcosa d’inafferrabile, che solo l’indiscrezione della mia macchina fotografica riesce a rubare, e anche  se sono solo un uomo, sento anch’io la stessa dolcezza, quando ho fra le braccia un bambino.
Dimentico l’aborto, guardo il sorriso appena accennato di questa mamma e non riesco a capire la violenza che sempre è inferta contro i minori perché inermi.
E’ bello essere madre.
 
 
 
Sono di fronte ai Monti Simien.
 
Mi siedo in disparte.
Apro il cestino che mi hanno dato, mi siedo sull’erba e mangio il mio panino imbottito.

Un grosso volatile, cosa è un grande merlo?mi vede dall’alto, e plana a grandi cerchi, atterra, si avvicina incerto, la fame lo chiama, non si fida.

Image

Gli butto lontano da me e da lui, un pezzo di pane, lo afferra con il becco, si libra, gettandosi nel vuoto, fra le montagne.
Lascio tre pezzi di pane, a distanze diverse, uno lontano da me, un altro a cinque metri, l’altro a pochi centimetri dalle mie scarpe.
L’uccellone di prima torna, ma questa volta non è solo, mentre posizionavo il pane, ho visto con la coda dell’occhio l’ombra degli altri due.
Spiacente mica siamo più fessi di te, abbiamo fame anche noi.
Arriva il primo probabilmente incazzato, ma i due di poco fa si precipitano su i due pezzi di pane più lontani e se la squagliano con il bottino nel becco.
L’altro, gira su di me, faccio finta di non vederlo, mastico di gusto,

aah come mi piace questo panino!

Image

Atterra, non ha il coraggio di avvicinarsi così tanto, riparte in volo, ancora un altro paio di cerchi.
Si avvicina a piccoli passi dondolando, quando vola è più elegante, guarda a destra, poi a sinistra, non si sa mai, un altro passo, si ferma, gracida disperato, si decide, sfiora le mie scarpe, scatta, afferra, vola.
 
Perché qui tutto è fame, tutto viene dopo la fame.
Se un pullman di turisti viaggia fra la polvere, c’è sempre qualcuno che accorre, lascia le pecore, si butta inutilmente all’inseguimento, si rassegna, torna dalle pecore, aspetta un’altra speranza da inseguire.
Se ci fermiamo arrivano a frotte, bussano contro i vetri, esponendoci le loro magliette, collanine, cestini, sciarpe, statuine, cartoline. Un bambino che non aveva niente da vendere, si è messo a pulire i vetri nella speranza che qualcuno lo ricompensi.

Ecco perché viaggiamo con due guardie del corpo armate di fucili mitragliatori AK – 47.

Image

Image

Image

 

C’è stata e c’è la possibilità di rapimenti. Alcuni di questi affamati, si sono prestati, svolgendo il lavoro più violento: rapire uno come noi, per consegnarlo ai professionisti. In cambio afferravano una ricompensa, il loro pezzo di pane che bastava a sfamarli per un anno, a rischio di essere presi, condannati, distrutti. Qui, uccelli e uomini sono accomunati dalla fame.

 

La cascata del Nilo Azzurro di Tiss Iscat (acqua che fuma).

 

 

Una cascata non l’avevo mai vista, l’acqua precipita dentro un imbuto di montagne da un’altezza di 45 metri, e nell’urto con la roccia vaporizza, forma una nuvola d’acqua, il rumore sovrasta, qualcuno mi dice qualcosa ma io non sento altro, non voglio sentire altro, era tutto così una volta, rumori diversi, vivo fra le strade, semafori, lontano dai rumori della terra, dell’acqua, in città non mi sento piccolo, qui sì, piccolo, sto nella grandezza, nella violenza, ne faccio parte. Com’era allora la solitudine?

Image

Angosciosa come la nostra o diversa accompagnata dai rumori del vento, dell’acqua, dai grandi silenzi?

Resto qui, nel rumore, uuuuh, uno scroscio, un ululato, le montagne rimbalzano l’eco. Sono bagnato, non me ne vado è questa l’Africa?Torno indietro, indietro, quando non c’ero, forse allora era più facile sentire Dio, in città è Dio ad essere sovrastato.

Image

Image

 
 
 
 
 
 
 

Annegano il muro,

Image

 

se lo mangiano, lo invadono, lo seppelliscono, fra non molto sparirà. Perché sento angoscia?Il muro è fatto con fatica e ostinazione, giorno dopo giorno, le radici lo inutilizzano,

l’avranno vinta, sui nostri pensieri, città, architetture, tutto farà la fine di questo muro, un manto tentacolare, aspetta solo che ce ne andiamo, il muro è finito, e le radici cominciano, inesorabili, un giorno nessuno saprà che sotto le radici c’era una città, brulicante di vita, fatica, preghiere.

“La bellezza salverà il mondo”?

Image

No, la bellezza vive di un tempo determinato, il muro crollerà, è solo questione di tempo.
 
 
E’ lo scheletro di un ominide Australopithecus Afarensis denominato Lucy ritrovato nella valle di Avash - vissuto 3 milioni di anni fa.
 

Piccolo, erano più piccoli di noi.

Image

E’ interessante come il restauro di uno scheletro si attui con la stessa filosofia del restauro d’arte.
Anche in questo caso le parti originali, che nel tempo non sono andate perdute, sono evidenziate, di un colore diverso, di una texture diversamente caratterizzata. Anche troppo diverso: le parti aggiunte sono talmente evidenziate che diventano protagoniste invece di essere all’apparenza retrocesse, in sottordine.
 
Pare che l’associanismo abbia prodotto un’accelerazione lungo il percorso dell’evoluzione.
Devo costruire la mia capanna.
Da solo non ce la faccio, facciamo le nostre capanne insieme, io ti do una mano per costruire la tua, tu mi darai una mano per la mia.
Nei millenni l’associanismo, la solidarietà è diventata necessaria, oggi è il manicomio: fogne, strade, illuminazione, traffico, semafori, ospedali, municipi, scuole, moduli, orari, ambulanze, manutenzioni, condominii, iva, spazzature, ici, irpef, polizia, strisce, bianche, gialle, blu, metropolitane.
 
La mia capanna, la mia vita, voglio tornare a costruirmela da solo!
 
Le case sono fatte con le mani, strano vero?
La mano dell’uomo imprecisa, paziente individuale, lavorando una materia insignificante, la trasforma in arte, sentimento, ornamento, casa.
Imprecisa come me, individuale come me.
Noi le compriamo le case, chiamiamo l’architetto per arredarle, non riusciamo a concepire che la propria casa si fa.

La struttura è in rami di albero,

Image

 

all’interno e all’esterno, che stringono a sandwich rami più sottili. Questi ultimi fanno da supporto al primo strato di fango, anzi è una trama ideale affinché il fango possa aggrapparvisi. Un secondo strato copre tutto.

Image

Image

Pare che con la stagione delle piogge il fango si decompone e si deve ricominciare da capo, e ancora, e ancora.

Alcune volte, la pianta è circolare, la copertura conica, e una corona di pietra assicura i pilastri in legno al terreno e nello stesso tempo isola le pareti dall’umidità.

Image

Image

Le case più recenti sono tutte in pietra.
Pensavo alla mia infanzia. Le donne andavano a prendere l’acqua in piazza, in fila davanti la fontanella, con la brocca di rame, i ragazzi scalzi, i vestiti rattoppati.

Questi bambini una volta diventati vecchi come sono diventato io, penseranno alle loro case di fango, con i sentimenti di chi ricorda e dimentica, come me che ricordo il mio passato, dimenticandolo in parte, per poterlo ricordare più bello di com’è stato.

Image

 
 
 
 
Per un sacco di tempo ho progettato come se avessi avuto paura del colore. Noi architetti spesso facciamo le nostre case bianche, il nostro è un abitare bianco.

Chissà se il benessere è scolorato.

Image

Image

Qui la casa, i prospetti, gli uomini, le donne si colorano con colori forti, sfacciati, distinguibili, nessuno di noi si vestirebbe tutto di giallo, o di rosso, o d’arancione.
La povertà è colorata perché il colore è una materia povera?

L’amore per la casa si materializza nel colore.

 

Image

Image

 
Lalibela, un’eruzione, un cratere alla ricerca di Dio.
 
Lalibela nasce, quando Saladino conquista Gerusalemme nel 1187 e il sovrano Cristiano di Etiopia decide di fondare nel suo regno, su un altopiano a 2700 metri sul livello del mare una nuova Gerusalemme.
Sopra un altopiano.

E invece, loro Dio l’hanno costruito sotto.

Image

Hanno scavato una trincea larga, intorno ad un blocco centrale, nel quale poi hanno cercato Dio, scavandolo, fino a quando il blocco centrale in pietra si è trasformato in spazio, chiesa, luogo di preghiere, d’incontro, canti, inni, implorazioni.

 

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

La terra quando è scavata, rivela nelle sue stratificazioni la storia di sé, Lalibela è stata la speranza della rivelazione che ha animato la ricerca.
L’Etna, sotto la quale vivo, vomita lava spinta dalle viscere della terra, scava il suo cratere, gli uomini a Lalibela scavano e creano vuoti, rapiscono la luce del sole, della luna e la conducono sulle nostre illusioni, non è un cratere che esplode dall’interno, ma dall’esterno, dalla volontà dell’uomo, che non vuole rassegnarsi ad un Dio che non c’è e cerca, scava, trucca la vita, trucca la roccia, la rende contenente, è lo stesso uomo delle catacombe, delle chiese rupestri, lo stesso uomo di sempre che prega nella solitudine del deserto, nel buio di una grotta, in una chiesa intorno alla quale hanno tolto la montagna, nel buio, nella luce, dentro di sé.
 
 
Dieci anni fa, in Etiopia scoprono che la città santa è messa male: gli edifici sono pieni di crepe, corrosi dalle infiltrazioni di acqua piovana.
 
Alla pioggia che gliene frega se con la sua azione distrugge uno spazio sacro, piove e se lo spazio delle preghiere crolla, continuerà a piovere.
 
L’Etiopia chiede aiuto all’Europa e, nel ’98, ottiene un finanziamento milionario per la costruzione di cinque tetti hi-tech: parapioggia temporanei, da smantellare appena il sito sarà stato completamente restaurato.
Vince il concorso della Ue per progettare le nuove strutture nel 2001, lo studio Teprin di Ravenna (che oggi afferma di avere disegnato “cieli artificiali, fogli sottili e piatti”).
L’Unesco davanti al progetto è subito perplessa: lo giudica mastodontico e costoso. Ma si va avanti lo stesso. Si aggiudica i lavori la Endeco di Padova (nel suo curriculum ha soprattutto impiantistica industriale).
 

Il risultato è spaventoso.

Image

Image

 

Su un territorio in cui tutto quanto ci è stato tramandato è primitivo, organico, trasuda semplicità, impatto diretto e inserito, dove hanno fatto le case con i rami degli alberi, le hanno fatte con le loro mani, dalla terra, dalla montagna, con il fango, con la roccia,

questa follia è irrispettosa, immiserisce e ridicolizza.
Lalibela era roccia scolpita per la ricerca del sovrannaturale, le coperture dell’Unesco sono la testimonianza di un’Europa dove Dio è morto.
 
Tra poco anche il quinto “coperchio” sarà pronto. L’Unesco però ora lancia un appello.
L’architetto Pietro Laureano: “Fermiamo questa follia.Con un piccolo finanziamento per assicurare la manutenzione dei canali di scolo, si salverebbe tutto il complesso”.
 
(Le righe evidenziate sono tratte da un articolo del giornale La Repubblica a firma di Alberto Fiorillo).
 
Ed ora cosa farà l’Unesco, riparerà dalla pioggia il Colosseo, il Tempio della Sagrada Familia con altri ombrelli in cemento armato?
 

Non ho visto in Etiopia, persone della mia età vive, sono tutte morte prima di me.

Image

Morti confortate dal pianto.
La bara è fuori, a lato della chiesa, circondata dai sacerdoti, sul sagrato cerchi concentrici di donne piangenti, oranti, vestite di bianco. Il colore di fronte alla morte è bandito.
Non se ne va solo, sa che gli altri soffrono, pregano, perché se ne va, lascia la vita in una morte confortata.

Lo faranno entrare in chiesa dopo, per un rito che segnerà il suo passaggio ad altro.

Image

 
La morte è segnalata anche qui.

Pietre come schegge puntate verso il cielo, ficcate in terra.

Image

 

Sono segnali, non sono monumenti, richiamano l’attenzione anche se non la cercano, presenze mute come è muta la morte.

 

Un bosco di lame di pietra di fronte ad una chiesa, a quanto ne rimane.

Image

 

Caduta, sparita in alcune sue parti, un rudere che del suo aspetto e funzione originaria non ha più nulla, è tornata ad essere quella che era nei primi giorni del suo cantiere, quando era solo un’intenzione.

Image

Muri, pietre l’una sull’altra, demolita dall’indifferenza del tempo. Tetti caduti, tre muri che di architettura non hanno niente, che danno la conferma che tutto è fine, morte, angoscia, abbandono, inutilità. E’ stato inutile costruirla, è stato inutile vivere: una chiesa morta di fronte ai segnali dimenticati dei sacerdoti scomparsi.
Si specchiano in un reciproco messaggio, in un’intesa, unificati in un silenzio che conferma quanto vogliamo dimenticare, spariti, segnalati da pietre destinate a cadere, come noi, come tutto.
 

E’ stata questa l’Etiopia, i grandi spazi, le grandi solitudini, le belle donne, i bambini che ridono, una primitività intatta, i racconti dipinti nell’interno delle chiese.

Image

Image

Image

Image

 
E’ stata questa fino al penultimo giorno.
 
Ci portano ad assaporare il caffè del posto. Vengo da una città in cui il caffè è uno dei piaceri della mia vita. Mi rendo conto ed esco.
Mi avvicina un bambino. Bambino? Ha gli orecchini, forse è una bambina. Piccola, sarà alta mezzo metro, i capelli crespi, due occhioni ridenti e supplichevoli, scalza, le pongo una mano sulla testa, sono timidamente intenerito. Mi segue. Attraverso la strada, salgo sul marciapiede prima di lei, sfilo dal portafoglio una banconota e gliela do.
Arrivano due mamme, non credo abbiano avuto più di quattordici anni, la più grande è sicuramente la sorella della bambina e si scatena una rissa, botte, cazzotti, si acchiappano per i capelli, mentre la piccola, con i suoi occhioni atterriti, schiacciata contro il muro, guarda la sorella che si rotola per terra contro l’altra mamma per il possesso di quella banconota che le spetta.
Io resto seduto nel pullman, pentito, sconvolto.
La tenerezza se ne è andata, ora c’è altro.
 
L’Etiopia non è solo grandi spazi, grandi solitudini, belle donne, bambini ridenti, è anche ferocia, lotta per vivere e fare vivere, fame, la stessa fame di quei volatili che si precipitano su un tozzo di pane con il pericolo di essere catturati. La verità è arrivata, la riconosco.
 
Ora che sono tornato a casa,
 
vivo fra i semafori,
mi scasso la minchia corteggiando un assessore,
in me ora c’è il vuoto di una vita che non mi interessa.
Andando in cantiere, un cespuglio di fiori rossi nasconde in parte un costone in pietra lavica,
il ricordo di tutti quei colori…
 
Ora che sono tornato a casa,
 
è rimasto qualcosa in me.
Di notte non dormo
ho un sacco di tempo per pensare
per capire,
non è facile,
la mia vita mi confonde le idee
Forse un giorno capirò
 

Tutti quei bambini…

Image

 

 

Fine