quel vuoto nella vita

Pubblicato sul quotidiano “La Sicilia” il 7 Settembre 2000
 

“Forse Gisella è morta così, per disarmonia. Forse l’indifferenza di cui lui era fatto avrebbe contribuito ad ucciderla. Chissà oggi. Dopo quella notte saprebbe trovare le parole per salvarla, perché a quell’età non si può essere forti senza un aiuto…”

 

“Pubertà” è questo il titolo che Edward Munch ( 1895 ) diede a questo dipinto esposto alla galleria nazionale di Oslo.

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Argan scrisse: “ La fanciulla ha la rivelazione della vita e guarda sbigottita al futuro, al suo destino di donna…sa di doversi muovere tra censure ed interdizioni che reprimeranno i suoi istinti naturali e limiteranno la sua esistenza sociale.”

 

 
 
Quel vuoto nella vita
 
Aveva 15 anni, non ce l’ha fatta a essere forte
 
Gli facevano male le gambe quando lo mettevano a studiare. Lo ingozzavano di pagine che non riusciva a ricordare, senza che una riga, una figura, di quello che leggeva o guardava entrasse nella sua attenzione. Negli anni la dissociazione peggiorò, in un torpore sordo, nella inconsapevolezza più definitiva. La mattina, la sera, le lezioni, la ricreazione, tornare a casa, genitori, insegnanti, tutti erano un’ombra. Gli parlavano? Parlava? Ma che volevano? Tutto era nulla dentro di lui e fuori. Un’abitudine di altri lo faceva alzare la mattina, si vestiva, prendeva il tram per la scuola, si lasciava portare, lasciava fare quello che volevano, anche se contro di lui. Una scuola o un’ altra, un giorno di scuola o la Domenica, si automizzava secondo le regole di altri, tutto era di altri, anche se stesso. Ottobre? Giugno? Sua madre veniva a sapere che era stato bocciato, che non rendeva, che era poco intelligente, che sembrava rimbambito, che balbettava risposte sbagliate.
L’estate la passavano al paese. La campagna, le zolle che si sbriciolavano sotto i sandali, l’odore della pioggia sulla terra, la piena del fiume che vedeva arrivare minacciosa da lontano dopo un acquazzone, il silenzio immoto nel caldo del primo pomeriggio. Gli amici lo chiamavano: “Scendi?” E lui correva per le scale, odore di umido, di povertà, penombra. Niente più gli era estraneo quando si arrampicava sugli alberi, il nodo dalla paura lassù in alto nell’isolamento più assoluto, in un senso di libertà di animale. Di sera tornava a casa sporco di sudore e di terra, con qualche granchio in tasca, con le gambe graffiate.
Non tornarono più al paese.
Staccandosene si protesse in un’abulia che diventò un’abitudine, perché per come era non c’era posto. Scelsero studi che avrebbero attuato la sua trasformazione da non adatto alla vita a non adatto a sé. Si costrinse a superare esami. Non sceglieva, non si sottraeva.
Era alle soglie della follia, quando alcuni estranei gli dissero che era diventato dottore in lettere. Cominciarono a prenderlo per un intellettuale, ma a nessuno passava per la testa che vedeva e viveva tutto come in sogno, che l’ imprendibilità che incuriosiva le donne era solo distacco, che i suoi commenti sembravano sorprendenti perché venivano da una persona spossata, che non si accorgeva di quello che trovava e di quello che perdeva. In occasione del matrimonio di un collega gli offrirono una supplenza a scuola. Cominciò a fare l’insegnante così.
 
Gisella C. non faceva parte del suo corso, ma la ricordava. Era sempre in gruppo, entrava sprezzante a scuola con lo zaino quasi vuoto, rideva. Il giornale le dedicò poche righe:
 

 

” Studentessa si uccide nella sua stanza al ritorno da un gita”.

 

 

“Gisella S. nata il 24.3.’67 per motivi che ancora sono rimasti sconosciuti, tornando da scuola è entrata nella sua stanza e si è impiccata con il cavo della televisione. Era tornata da due giorni da un gita scolastica”.

 

 

 

 
 
“Mi devi credere, secondo me aveva dei problemi familiari che l’hanno spinta a fare quello che ha fatto. Noi non c’entriamo.”
“Ma durante la gita è successo qualcosa?
“Si. In albergo alle 11 di sera sentii un gran baccano al piano di sotto: risate, rumori di oggetti che cadevano, passi di corsa. Era in una delle stanze occupate dai ragazzi. La portineria alla fine ha chiamato la signorina Cultrera, l’insegnante di Inglese.
-Per favore ragazzi fatela finita-
Da dentro le rispose una pernacchia .Scesi anche io.Mi misi ad urlare che se non aprivano la porta l’avrei sfondata. La porta si aprì. I ragazzi non erano soli, c’era una ragazza del III anno in reggiseno e mutandine.
C’è nessun altro?
No.
Non ci credevo. Aprii l’armadio, tirai le coperte dei letti, guardai sotto. Ci stava Gisella nuda. La professoressa quando la vide si mise ad urlare, la prese a schiaffi, disse molte cose.
Quando tornammo, su richiesta della Preside scrivemmo una descrizione dei fatti che firmammo tutti.”
“Che altro?”
“ Abbiamo chiesto a tutti e quattro di tornare accompagnati dai genitori”.
“Un momento.E’ la prima cosa che avete fatto appena tornati?”
“Te l’ho detto, abbiamo scritto una descrizione dei fatti.”
“D’accordo, questo l’avevo capito, ma prima?”
“Li abbiamo chiamati in Direzione”.
“Insieme?”
“No. Uno alla volta, e poi tutti insieme per vedere se il racconto dei fatti coincideva. I ragazzi si sono comportati con una certa passività, rispondevano alle domande con monosillabi”.
“ E le ragazze?”
“Una era tranquilla, quasi sfrontata”.
“ E Gisella?”
“Quando le abbiamo detto che doveva tornare accompagnata dai genitori si è messa a piangere”.
- Che facevi in quella stanza?-
- Niente -
- E allora perché eri nuda ?-
Silenzio, gli occhi bassi, le prime lacrime.
- Avevate bevuto? Perché ti sei nascosta sotto il letto?-
Domande, sguardi.
-Questo è il resoconto dei professori. Firma.-
 
Uscire da quella stanza dove tutti erano più forti di lei, le scale, il cortile, fuori in strada e poi in casa nel silenzio della casa.
Una voglia di morte incontrata altre volte di sera, si affaccia di nuovo. Una tentazione conosciuta segretamente per una soluzione a tutto, facile finalmente.
 
Ci guardiamo intorno con curiosità, nei primi anni di vita, con meraviglia sempre nuova con l’avidità animalesca di chi vuole imparare a vivere. Poi alcuni capiscono che noi e la vita siamo troppo diversi, che è meglio non capire, che lottare contro è troppo difficile.
 
E all’improvviso non vogliono imparare più. Tornano a casa e prendono le misure per la loro morte. Montano la corda salgono su una sedia provano se il cappio scorre bene, se il piede riesce a fare cadere la sedia e se ne vanno.
Anche se hanno solo 15 anni.
 
 
 
Anche per lui cominciò tutto con una gita . Era seduto sui primi posti del pullman quando una voce dai sedili di dietro gli chiese:”Vuole un bacio professore?”Era Fabia G. un’ allieva del 4°anno che gli offriva aperta una scatola di cioccolatini, con gli occhi che le ridevano.
 
Quando la sera le luci sono spente, il silenzio della sua casa si anima dei rumori del traffico, le voci dei soldati che tornano in caserma, qualche passante.
Ora che è tornato solo in quelle stanze senza nessuno, insieme ai rumori di sempre, risente le loro voci, quando dopo l’amore parlavano degli entusiasmi di lei, della loro infanzia, del suo fiume, delle parole di lui, di cui Fabia aveva sete. Il rumore dei passi quando lei entrava , la sua voce, le sue mani. E le rubava la sua giovinezza, viveva di una felicità che non apprezzava, che non ha mai finito di cercare.
Una notte in un mare senza luna, fecero il bagno, nuotando spaventati fino al largo;salirono su uno dei motoscafi ormeggiati. Il suo viso bagnato lo cercava, al buio, ridendo, incurante delle paure di lui, delle voci che sentivano dalla riva, dei pescatori che passavano con le lampare che solo per un caso non li vedevano.
Lo sapevano che la loro storia,una volta scoperta,poteva trasformarsi in un gioco al massacro, insegnanti,presidi, genitori, studenti, avrebbero fatto gruppo per farli a pezzi.
Ci tornarono una maledetta mattina.
L’albergo che li attirò aveva il pavimento fatto con un vecchio parquet.Come sempre parlarono molto sprofondati nelle poltrone dei salottini.Fu lei che chiese se c’erano camere libere. C’erano. Consegnarono i documenti, corsero di sopra.
La stanza era linda, arredata in bianco e giallo, (glielo fece notare lei) si affacciava su un cortile minuscolo con alberi di aranci.Quel giorno più che mai era pazzo di lei, non sapeva come prendere la sua bellezza, la copriva di ricordi, annegava nel suo odore, nascondeva il viso fra le sue mani, voleva che i suoi capelli la sua pelle, lei diventasse lui, lei si offriva solo con tenerezza.
Ma appena fu tutto finito, quel furore si sciolse nel suo vuoto e nella sua noia di sempre, nella sua voglia cronica di nulla attratto solo dal suo disinteresse e dalla sua solitudine. Trattò male la sua comprensione, le gridò tutto il suo fastidio di averla con sé nel viaggio di ritorno.Ci metteva troppo tempo per rivestirsi, maledizione! La odiava perché non spariva per il suo silenzio mortificato.
Non telefonò più, telefonò una delle altre.
 
Il primo segno che qualcosa stava succedendo l’ebbe a Palermo qualche giorno dopo. Pranzò in un motel con una vecchia amica, poi prima di ripartire scambiarono poche chiacchiere in macchina le solite cose. Senza che fosse successo niente, senza che cambiasse espressione, mentre parlava, gli colarono lacrime. Era frastornato, le chiese scusa, gli dispiaceva, non capiva… “Purtroppo queste lacrime non sono per me” gli rispose ridendo.
 
Non ci pensò più. Sull’autostrada tornò al suo solito stato di apatia, in fondo la cosa nemmeno lo incuriosiva. Alle 6 del pomeriggio era nella sua vecchia casa di campagna;prese qualche appunto per la lezione dell’ indomani, una scorsa al giornale, le cose di sempre: la cena, molta televisione, a letto senza presentimenti. Verso le 2 si svegliò. Non riusciva a fare entrare in gola l’aria, era come se si fosse paralizzato qualcosa dentro che non gli faceva più funzionare l’inspirazione. Si mise a sedere. Cercò di respirare. A fatica l’aria ricominciò a entrare un poco alla volta, di più, sempre di più. Si sdraiò da capo con un groppo alla gola, e fu in quel momento che crebbe in lui un desiderio di morte.
 
 
 
Morire, chiusura, fine, basta, rinunziare finalmente a tutto, dopo tutti quegli anni di vuoto, dopo una vita di rinunzie ad avere quello che avrebbe voluto volere, ad amare quello che quello che avrebbe dovuto amare, un singulto senza pianto per il desiderio di scelte, di volontà, di ribellione che erano stati tutti i suoi anni.
Fu il terrore della morte a risucchiarlo alla vita.
 
Il vento veniva da lontano, poi si avvicinava sempre di più, muoveva i rami degli alberi davanti alla sua finestra se ne andava, lasciandogli il silenzio della notte.
Gli alberi…forse era stato quel ragazzo che si arrampicava sugli alberi che aveva tentato di soffocarlo dopo essere stato soffocato per tanti anni.
E forse Gisella è morta così. Per disarmonia. Forse l’indifferenza di cui lui era fatto avrebbe contribuito ad ucciderla.
Chissà oggi dopo quella notte saprebbe trovare le parole per salvarla, perché a quell’età, non si può essere forti senza un aiuto, una consolazione, una compagnia, una rassicurazione, un paragone, una rassomiglianza, una scuola che dica loro che tanti hanno cercato, che pochi stanno cercando nella stessa strada con le stesse angosce, le stesse stanchezze.
Qualcosa ci inchioda la testa quando usciamo dall’infanzia, entriamo in un torpore che è autodifesa dal mondo degli adulti. Un mondo nel quale si può entrare solo violentando il bambino che è in noi. Moltissimi, quasi tutti, restano così per tutta la vita, creano una massa di individui che sono vittime e responsabili, innocenti ed assassini. Alcune volte gli anni, un succedersi di sensazioni, alcuni stupori scatenano una ribellione, la sfida ad essere se stessi.Sono i pochi che osano svegliarsi, che corrono più pericoli, che vivono cercando.
 
Aveva 15 anni.Non ce l'ha fatta ad essere forte da sola. Morì perchè volle allearsi con gli altri nell'aggressione contro se stessa.
Il silenzio e la vergogna della madre, le sue lacrime si sone trasformate nel potere della Direttrice. La giudicarono troppo presto. Ancora qualche anno e non ce l'avrebbero fatta a distruggerla.
Come tutti anche lei giudicò il proprio comportamento da puttanella. Era lei la persona sbagliata, perchè gli altri non avrebbero fatto mai quello che aveva fatto lei. Era il contrario di tutti, non sarebbe riuscita mai a diventare come loro. Continuò fino in fondo il processo che altri avrebbero fermato solo all'espulsione. La condanna definitiva contro se stessa se la infisse da sola. Sola, perchè come era sarebbe rimasta sola sempre. Non è un caso che quasi tutti quando decidono, scelgono quella morte.
Sentire il proprio respiro che non può uscire più, non può entrare più. Basta respirare. Deve finalmente restare tutto dentro, perchè tutto non è voluto, non è giusto, è contro. L'aria non entra, non deve uscire più, non entreranno le parole degli altri, la diversità degli altri che non siamo riusciti ad imitare.
Si chiude. Quello che c'è dentro rimane dentro e quello che è fuori rimane fuori.Fine.