Viaggio in Algeria

Viaggio in Algeria
 
 
Algeri, non abbiamo visto niente, probabilmente non è una città che possa essere capita, visitandola così in fretta.
L'autista del taxi accende la radio, Iglesias canta anche qui,  le solite canzoncine, ora trasmettono la colonna sonora di Titanic, ci districhiamo in un traffico che ci ferma continuamente.
Da lontano vedo la Casbah, mi avvio per andarci, ma la guida mi blocca, troppo pericoloso per un turista, chissà la battaglia di Algeri contro i francesi è cominciata proprio lì.
Le luci del porto... mah, un pomeriggio sprecato.

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In albergo cincischio con il sacco a pelo, tanto per provare, mai visto un sacco a pelo nella mia vita, lo apro, ho capito, cerco di riarrotolarlo per ficcarlo nella custodia, non è facile.
Siamo in un albergo, albergo? I cessi in comune, il pavimento in cemento, praticamente se esco dalla camera sono all'aperto.
 
 
 
 
 
 
 I tuareg, gli abbandonati da Dio, i figli del vento, i predoni del deserto.
Stanno per estinguersi.
D'altra parte, che ci fanno i tuareg con la colonna sonora del Titanic?
 Quei pochi che sono rimasti, si alzano, mangiano, danno da mangiare ai cammelli,

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è come se ascoltassero la giornata che passa, poche parole, solo le necessarie, nel vento che arriva a raffiche, nel sole, a ridosso delle montagne, sulla terra, fra gli sterpi,

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la sabbia ovunque sulle loro mani, sul loro corpo, niente più del necessario, giorno per giorno, solo la loro fatica, la loro giornata, nelle più grandi solitudini, nel più grande silenzio.


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Ora fanno le guide.


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Sono nel Tadrart, nel deserto algerino.

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L'infinito è troppo grande, a casa vivo fra le case, in strade, la città è fatta da uomini, per uomini, qui io sono niente, troppo niente, difficile tornare ad essere l'uomo di milioni di anni fa.
Se percorro 200 metri nel deserto divento un punto nell'infinito,
 
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divento anch’io un granello di sabbia. Una sabbia duttile, colorata, diversamente colorata, inafferrabile, mi sfugge fra le dita, si modella nel tempo, con il vento, si adagia ai piedi della roccia.
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La composizione di due materie differenti, la sabbia, che si adegua, si fa plasmare dal vento, e la roccia, violenta, crollata, precipitata, scavata, incombente, dura, nera, tormentata, esplosa.

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E' il risultato di una devastazione di milioni di anni fa,

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un caos terrificante,  massi enormi sparati da  terremoti distruttori, un'esplosione della natura, una violenza distruttrice che ha scolpito uno spettacolo che mi lascia esterrefatto.

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Un navigatore solitario,  quando lo informarono che aveva il cancro, prese la sua barca e si perse nell'Oceano.
 Si trovò solo la sua barca, senza nessuno a bordo, chissà se si è mai ucciso qualcuno nel deserto, sparire da soli, senza nessuno.
 
Non sono abituato a vedere le mie tracce, le orme dei miei scarponi.


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Accendono il fuoco ogni sera,

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nel deserto si trova sempre legna da ardere,

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il fuoco, la fiamma, la brace, l'odore di bruciato, il pane cotto sotto la cenere, poi sopra, e noi rapiti a guardare, a ricordare, torniamo indietro, molto indietro, quando non c'eravamo.
 
E' il vento che plasma la sabbia,

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in colline scavate da onde, si allungano nelle gole delle rocce, sui pendii, si allagano in laghi grigi, un grigio chiarissimo,

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fatto di sabbia lavica, il grigio che si compone con i colori del deserto, un giallo caldo, che si colora, si scolora, laghi, mari colorati, un presepio che mi sconvolge,

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debbo violentarmi per continuare a non credere in Dio, lo so che non c'è, ma è difficile non dare ascolto alla mia voglia di Lui, l'ascolto di un grande mistero, che vorrei che si nascondesse dietro queste masse concave, emergenti, lontane, che mi illudono solo per qualche attimo che al di là, dietro, di fronte a questo abbraccio dei colori che amo di più, seduto sulla sabbia, solo, isolato, dentro, è tutto il mio corpo, la mia pelle, che ascolta, guarda, spera che questa bellezza infinita possa parlarmi di qualcosa a cui non riesco a credere, in una bellezza che mi fa sentire abbracciato, in una solitudine fatata.



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I tuareg, pregano, ogni sera,

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soli, si isolano, si avvolgono la testa, si inginocchiano, dimentichi di tutto, in silenzio, pregano verso un Dio che hanno dentro, con gli occhi chiusi. Se volessi dire che io sono certissimo che Dio non c'è, loro avrebbero per il mio stato mentale una gran pena, perché in ginocchio la sera , Dio è con loro, lo sentono nelle loro vene,

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nel silenzio che li circonda, fa parte della realtà del cielo, dell'infinito del deserto, del fuoco che hanno acceso, dei gesti della giornata, dei colori che poco fa mi hanno commosso, che non sono riusciti a persuadermi.
 
Sono stato un grandissimo fesso, quando insegnavo ai miei allievi dell'Accademia che
i grandi della Storia dell'Arte,hanno creato messaggi più sconvolgenti degli spettacoli della natura. Ma come ho fatto ad essere così stupido?
 
La montagna da lontano è un panorama, una visione, ogni volta che sono in autostrada, l'Etna mi abbaglia. Ma ora ci avviamo verso la montagna,

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e all'improvviso mi rendo conto che ci sono vicino, che ci sono dentro, non è più un'apparizione, ora ne faccio parte, 

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 io divento la sua materia, sono la sua maestà, respiro il suo silenzio, succhio la sua potenza, montagna e cielo,
 
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devo stare attento, non debbo farmi affascinare, non debbo distrarmi, ne posso morire, sono abituato ai marciapiedi, ecco, la montagna ora è anche paura, sono un ospite inatteso, inatteso e incantato, sono arrivato in cima, il tuareg che mi ha fatto da guida si ferma,guarda sotto, lontano,

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come me, intimorito uomo da marciapiede.  Abbraccio il mondo, non è lontano, è dentro di me.
 
All'arrivo ci troviamo nell' altopiano del Tassili.
Nella mia vita non ho mai dormito in una tenda, non ho mai montato una tenda. Guardo come fanno gli altri, mi sembra una cosa facile. La monto. La cerniera lampo non chiude, non è una cosa da poco, se non ci riesco è come entrare in casa e lasciare la porta aperta. Alla fine capisco. Debbo tenere l'altro capo della tenda molto tesa. Ci ritento, accanitamente, disperatamente. Chiudo. Accendo la lampadina tascabile, srotolo il sacco a pelo, a forza di contorcimenti mi ci ficco dentro, e io che a casa, in mezzo a comodità che qui mi sembrano un miracolo, soffro di insonnia, dormo, nonostante un vento furioso, che mi piega la tenda, la fame, ci hanno dato per cena un'insalata e dormo, dormo, dimentico di tutto, ma non del fatto che solo un pazzo come me, a settantasei anni, se ne va a fare una scarpinata di quattro ore inerpicandosi in un'interminabile salita lungo una montagna dell'Algeria. Sono arrivato ultimo, dopo tutti, che hanno in media venti anni meno di me. Una dottoressa di Genova, quando sono arrivato mi ha detto che sembravo uno zombie .Probabilmente ha ragione mi sento come ubriaco,ubriaco di sfinitezza.
Gli altri impietositi mi hanno chiesto:" Scusami ma tu, quando sei in Sicilia, la fai qualche passeggiata in montagna"? E io: "In Sicilia, le uniche passeggiate, le faccio solo lungo i marciapiedi di Catania". La cosa ha riscosso una grande ilarità.
La mattina appena sveglio, mi accorgo che ieri sera non mi sono tolto le calze. Me le tolgo. Ho le unghie degli alluci nere, mi si stanno staccando.
Alcuni miei compagni di viaggio, molto stanchi, decidono di tornare in albergo, mi metto in turno pure io, penso ai miei piedi. Mi decido. Continuo. Lo so, mi conosco, se torno in albergo mi rimprovererò per tutta la mia dannatissima vita di un'occasione mancata.
Non sono pazzo perché non credo in Dio, sono pazzo perché sono nato pazzo.


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Il racconto ricorrente è il rapporto con gli animali,

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correre con loro, sopra di loro,

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cacciarli, lo scatto repentino per una caccia fortunata con i lazos, gli archi, le lance.


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L'avventura, la lotta contro chi è più veloce di loro, più forte, più bello.


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Il più delle volte, i profili degli animali sono disegnati con più cura degli uomini.


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Fotografo con la mia digitale quello che fotografavano loro con la terra rossa, per ricordare, raccontare, rivivere la parte più bella della giornata, probabilmente della loro vita.


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Gli animali come spettacolo, chi li disegnava?

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Forse i vecchi costretti a rimanere mentre gli altri partivano, o chi era stato partecipe di avventure degne di essere raccontate.
 
Disegnavano come pregando, per avere la fortuna di uccidere, catturare,



anche il giorno dopo, cogliere con pochi segni l'emozione del momento, l'adrenalina che si scatenava in loro nel momento dell'attacco, l'animale domato, preso, vinto.


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L'arte moderna nelle sue raffigurazioni, ha preso molto da questi graffiti, perché rappresentati con il massimo di un'essenzialità necessaria, raccontare il massimo con il minimo, comunicare i sentimenti di attori e spettatori entusiasti, con pochi segni, tratti riassuntivi, che hanno affascinato artisti venuti dopo di loro, migliaia di anni dopo, impressionare togliendo al racconto figurativo inutili particolari, per fare rivivere sentimenti ricordati.
E poi alcuni appunti sulla vita di ogni giorno, lo stare insieme, la sofferenza, il miracolo primitivo del parto.


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Ma non andavano solo a caccia, facevano altro,

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probabilmente gli uomini non avevano ancora inventato il peccato, fare l'amore era probabilmente concepito come mangiare, bere, vivere il vento, la pioggia, la vita.
Ho il dubbio che il peccato sia stato inventato poi, per farci divertire di più, (non solo me la godo ma faccio anche peccato). Loro erano nudi, noi ci spogliamo, ci sveliamo, loro erano semplici come apparentemente semplici sono i loro disegni, nei quali non compaiono mai gli alberi, l'acqua, i fiumi, le montagne, la loro era una vita fatta di necessità primarie, la nostra di necessità abbellite, ogni giorno la loro libertà avventurosa della caccia, noi facciamo i mariti.
 
In aereo verso Catania, mi allungo sulla poltrona, il sole sulle nuvole.
 
La guida nel salutarmi, mi ha raccomandato affettuosamente di non ripetere un'esperienza troppo faticosa, come è stato questa, per me.
Questi giovani mi fanno tenerezza, non sanno fino a che punto un settantaseienne può essere irragionevolmente testardo come da sempre sono stato io.
 Non lo sa che io viaggio per tornare ad essere quello che ero, come avrei dovuto rimanere.
 
Mi sono innamorato tanto tempo fa, me ne ricordo, è stato l'unico tempo in cui mi sono piaciuto molto, per come mi sentivo, le parlavo, per le mille cose che avevo da dirle. Ora non mi piaccio, anzi non me frega niente.
Avrei dovuto rimanere bambino, ma io quel bambino l'ho dimenticato. E' tornato con me quel giorno nel deserto.
Viaggerò ancora, per ritrovarlo.
 
Mi sentirò così, lo so, come adesso, quando sarò ancora vivo con una gran voglia di morire, quando avrò capito finalmente che non avrò più nulla da trovare, gli inutili ricordi morti, una stanchezza che non vorrò più vincere.
E le donne mi continueranno a dire che sono un immaturo.
 
Fine