Le metamorfosi

COLLETTIVA D'ARTE "LE METAMORFOSI"
 
Organizzazione: MORFOSIS – Giovani Architetti della Provincia di Catania
Presentazione 13 dicembre 2008 - Orto Botanico Catania
 
 
L'inaugurazione della collettiva d'arte "Le Metamorfosi" rappresenta per la nostra associazione, la definitiva contaminazione ad ogni forma d'arte.
Arte e architettura da sempre si confrontano, si respingono, si attraggono, per poi accomunarsi sotto un'unica espressione servendosi di schematismi e codici analoghi.
Già alla fine degli anni '60 la ricerca di nuovi linguaggi architettonici, alternativi al Movimento Moderno, in costante riferimento con le contemporanee sperimentazioni delle altre arti, dà origine ad una ritrovata creatività.
I progetti di architettura e le opere d'arte dell'ultimo decennio confermano quanto mai oggi, le due discipline sono vicine. Basta pensare alle archisculture delle così dette archistar o alle opere e le installazioni di alcuni artisti che presentano un carattere fortemente progettuale, tale da strutturare e condizionare l'uso e la fruizione dello spazio urbano.
Allo scopo di esprimere l'eterogeneità formativa e culturale dei soci Morfosis, la mostra coinvolge un gruppo di artisti, che si muovono secondo direttrici diverse, a volte opposte, ma che creano esperienze ed emozioni finalizzate alla rappresentazione dell’unica tematica. Quella delle metamorfosi.
Il tema scelto non è affatto casuale, in quanto storicamente ha rappresentato uno dei linguaggi più frequentati da ogni tipo di espressione artistica, affrontato sempre in maniera diversa: totale ed irreversibile o parziale e temporanea; trasformazioni rapide, istantanee oppure scandite nel tempo e per fasi; mutamenti con risultati che stanno a significare uno stato migliorativo o di degrado. In tutti i casi, unico messaggio delle infinite forme metamorfiche è l'indice del cambiamento: l'esistenza che si trasforma, si evolve, si adatta.
La mostra non poteva trovare altro spazio espositivo ideale se non l'Orto Botanico di Catania, in quanto riflette perfettamente il concetto del tema trattato, potendolo considerare come una galleria d’arte vivente, museo delle trasformazioni, luogo delle continue metamorfosi.
La mostra aperta fino al 23 dicembre è un occasione per i fruitori per lasciarsi contaminare dalle diverse espressività.
L'alternarsi di linee rette e curve che generano forme e spazi geometrici, simili a strutture architettoniche che cambiano in sequenza, rappresentano la metamorfosi dell'albero nelle quattro stagioni di Annarita Marcantonio.
Nell'opera di Salvo Borzì, il particolare di un paesaggio privo di ogni riferimento diventa quasi il particolare di un corpo che a tratti si distende o contorce
Per Carmelo Grasso, lo studio sul corpo umano ed il suo movimento è l'espediente per descrivere l'evoluzione dell'uomo e la sua metamorfosi biologica, sociale ed umana.
Gli scatti fotografici di Ninni Maugeri rivelano in sequenza, le peculiarità e le incoerenze del paesaggio metropolitano lungo percorsi definiti, che sottolineano le trasformazioni di scenari altrimenti immobili e bidimensionali.
L'istallazione di Antonella Arancio descrive l'evoluzione e la dinamica delle trasformazioni dello Stretto di Messina, dovute alla combinazione di fattori naturali ed antropici, attraverso la riproduzione manuale di cartografie storiche rimpicciolite, riproposte come diapositive.
Se la fanciulla di fine ottocento del quadro di Munch, vive con ansia la trasformazione del suo corpo, la stessa adolescente riproposta da Daniele Casaburi, appare forse più sicura, disinvolta e libera, ma è un illusione che dura davvero poco perché vittima di limiti e censure dettate dalla sua condizione naturale di essere donna.
Negli oggetti di design presentati da 2c workshop e da Agata Petrillo, lo studio e, la manipolazione della materia e delle forme, ci restituiscono elementi intrisi di nuove peculiarità perfettamente trasformabili ed adattabili a seconda del cambiamento delle esigenze del consumatore e del suo spazio.
La riorganizzazione dello spazio abitativo di Zero Architetti, prevede l'uso di uno schema a pianta libera, dove gli spazi domestici più statici si dispongono in una successione di variazione che crea una gerarchia di ruoli e posizioni.
A chiusura dell'evento giorno 23 dicembre è previsto il concerto del duo pianistico a quattro mani composto da Emma Chiaramonte e Puccia Zappalà, la musica come legante fra le arti visive sintetizzerà, alla fine dell’evento, il concetto di metamorfosi con esecuzioni che mescoleranno suoni e ritmi eterogenei, rappresentativi di identità e luoghi differenti ma appartenenti allo stesso mondo.
Dalle molteplici letture che esplorano tutti i campi della creazione artistica, scaturisce l’uniformità di una mostra capace di stimolare ogni senso percettivo del fruitore, attraverso la combinazione e le metamorfosi di forme, colori, materiali e suoni.
 
 
Arch. Giuseppe Cammaroto
   (Coordinatore della  mostra)
 
 
 
 
 
 
 
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Quando sono stato invitato dal Centro Ricerche Morphosis per intrattenervi sul tema Le metamorfosi mi sono accorto che seguivo lo stesso percorso raccontato dall’autore di “Padre padrone”.
Probabilmente ricorderete la storia di questo bambino vissuto tra le pecore, nelle campagne della Barbagia, strappato dalla scuola dal padre a forza di botte,che diventato giovanotto è richiamato al servizio di leva. Fa amicizia con un commilitone che sta per terminare i suoi studi di Scienza della comunicazione ed è in questa circostanza che capisce  la forza che gli esseri umani hanno tratto nella loro storia, utilizzando la possibilità di descrivere tutto, di comunicare tutto, sentimenti, racconti, realtà, poesia, scoperte, esperienze, tutto per un arricchimento reciproco continuo. Ascoltare, comunicare, conoscere, approfittare delle conoscenze degli altri, di tutti.
Ve la ricorderete la scena, quando il concetto gli si svela, e : “P, pastore, patire, percosse, pezzente, pecore, possesso, potere, patriarca, padrone. “
 
 E io: metamorfosi, Ovidio, trasformazione, di un essere in un altro,di una volontà in un’altra,cambiamento, modificazione.
 
A cosa sarebbe ridotta  la nostra vita se non fosse fatta di una serie ininterrotta di metamorfosi?
 
 Ne hanno parlato a Venezia, nella Biennale del 2004 dedicata al concetto di Architettura nelle diverse esperienze culturali che si manifestano nelle loro continue trasformazioni, lo spazio architettonico capace di vivere i mutamenti della storia  trasformandoli in cose, design, spazio, strutture, forme, architetture.
 
Metamorfosi dell’Architettura come avvento di una nuova epoca.
 
L’architetto come filosofo che interpreta i fatti della vita, in una visione alternativa del mondo.
 
A Venezia. E lì contemporaneamente, contro, si stava portando a compimento la ricostruzione del Teatro La Fenice. Ve li ricordate i nostri studi universitari? Ci dicevano, ci insegnavano che il principio “ Come era e dove era” era nel restauro quanto di più dannoso, di più falsificante si potesse fare contro quanto ci è stato tramandato, contro quanto ci è stato dato, del passato, affermazioni di Ruskin, Giovannoni, che hanno sofferto come noi delle falsificazioni operate da restauratori-demolitori della storia. E’ per questa sensibilità educata dai nostri studi, che ho sentito un sentimento di orrore, quando ho visto le fotografie del Teatro rinato.
 
L’avevano rifatto, come era, un falso rivoltante, inaccettabile, una patacca.
 
 Ma non è stato un caso isolato.
 
 A Berlino sarà ricostruito il Castello Vecchio, demolito dall’amministrazione comunista nel 1950 per realizzare il Palazzo del Popolo. Ora si butta giù il Palazzo del Popolo per rifare il Castello: un orrore architettonico del 1950 sostituito con un altro orrore, progettato da un architetto italiano, e vinto in un concorso internazionale ( beati loro, ci sono città in cui gli architetti gli incarichi se li guadagnano con i concorsi). Se fra decine di progetti una giuria decide di premiare un falso, siamo costretti, non possiamo fare a meno, di porci delle domande, capire per quale ragione si trucca la storia, la si rievoca, la si rifà.
 
 E’ una rivalsa?
 
 L’architetto, nella Biennale 2004, è visto come un filosofo che interpreta in una visione alternativa ma ora non abbiamo più fiducia nella realtà che stiamo vivendo.
 
Qual è la ragione per la quale approfittiamo a piene mani di quanto ci permette la tecnologia, trapianti, vite salvate, computer, cellulari, satelliti, velocità, relazioni, valutando le possibilità che queste tecnologie ci permettono, scegliendo la raffinatezza con la quale questi oggetti sono costruiti e disegnati, la raffinatezza dei loro materiali, forme, colori e poi quando ci occupiamo di architettura, spazi per il nostro vivere quotidiano, vogliamo vivere in una scenografia di finzioni?
 
 D’accordo, d’accordo, altre tecnologie sono l’orrore della nostra storia, armi, distruzioni, inquinamenti dei mari, del cielo,
ma la soluzione non può essere questa,  il neo, il riproporre, la neofobia, la paura del nuovo.
Qual è la ragione per la quale nella nostra città, si accaniscono contro il Monumento ai Caduti di tutte le guerre, assessori che ne manifestano il loro disprezzo, ne chiedono addirittura la demolizione e della Piazza “ I Vicerè” non ne parla nessuno?
 
Ve lo dico io il perché.
 
 Il monumento non è riconoscibile, è il diverso, l’avventura, una forma di arte che essendo tale, spiazza a differenza della piazza I Vicerè che invece pacifica, è un già visto, ripetuto, ricopiato, ricopia un passato che tranquillizza, mentre il moderno (attenzione non ho detto contemporaneo, ho detto moderno) è un’ anticipazione, la realizzazione di una filosofia realizzata in un sentimento di lungimiranza, previsione di quanto sta per avvenire.
 
Nella mia vita io ho fatto due lavori bellissimi, uno è stato il lavoro dell’architetto, l’altro quello dell’insegnante nell’Accademia di Belle Arti.
Credetemi sono migliori di noi. Sono meno religiosi. Se uno di noi mette in dubbio la validità a tutt’oggi delle scelte di L.C. si scatena il più delle volte un putiferio, ne parliamo ancora con devozione, e non ci accorgiamo che da allora è passato quasi un secolo, per gli studenti dell’Accademia il Futurismo è una corrente che appartiene alla storia, al passato,mentre noi architetti non sappiamo niente di quanto c’è stato nel mondo dell’arte in questi ultimi anni.
Loro parlano di Cattelan,di Freud (il pittore) di Bacon, sono nuovi, ripensano sulle loro scelte ogni 5-6 anni, sfidano il passato modificandolo, contestandolo, ripensandolo, sono liberi, provocatori, avventurosi, discutibili, sorprendenti, scandalosi.
 
 Quando ero all’Università se uno di noi si avventurava ad affermare che essendo architetto voleva avere la possibilità di  essere anche un artista, artista del colore, delle forme, degli spazi, sarebbe stato sicuramente oggetto di sarcasmi. Ci domandavamo se fosse giusto che l’architettura potesse tornare a fare parte del programma dell’Accademia di Belle Arti, almeno negli intendimenti, negli orientamenti, in una certa voglia di affermarsi di stare insieme
 così come è stato fatto in questa mostra,
 respirare l’aria che respiravo io quando insegnando stavo con loro. Forse è per questo che  Pasolini affermava  che un buon insegnante
 impara insegnando.
 
 
E’ questo il cambiamento, questa la metamorfosi. Essere meno noiosi, meno scontati, meno prevedibili come gli artisti non sono. Siamo ripetitivi, furbi, copioni, passivamente globalizzati.
 
Poche città hanno tanti negozi, uno più bello dell’altro, come se ne vedono a Catania. Inutilmente belli, perché sono tutti uguali, sembrano fatti dalla stessa mano, la stessa impresa. Da quando L.C. fece la Ville Savoy tutta bianca, noi facciamo tutto bianco. Se viaggio in Etiopia, Giordania, Egitto,  trovo un mondo colorato, la povertà attua la sua rivalsa colorando se stessa, il nostro è un mondo scolorato.
                
 
Nel mio studio sono entrati committenti giovani, che si sono presentati con ritagli, in cui le immagini erano sempre, (sempre) case “rustiche” o arredi rustici, barocchi o in stile inglese o similari.
Il contemporaneo non li affascina, non lo vogliono, preferiscono abitare nella finzione piuttosto di vivere in spazi adeguati al loro tempo, alla tecnologia di cui fanno uso.
 
Noi architetti dobbiamo cambiare, anche se le occasioni per farlo saranno poche.
 
Paolo Villaggio in una recente intervista televisiva “Le invasioni barbariche”disse che ogni volta che aveva avvicinato e conosciuto di persona un politico, si era sempre trovato di fronte un personaggio inevitabilmente squallido. E’ vero, non sempre,
anche se imbecilli lo sono quasi tutti.
 
 Presidente mi scusi perché non crea un gruppo di intellettuali che possano collaborarla per la stesura del suo programma urbanistico, le strutture prioritarie per la città, per il testo delle conferenze, gli interventi nei media,gli incontri con la gente?....
Presidente, anni fa hanno ammazzato un gruppo di carabinieri al Casello di San Gregorio, perché non proporre un memorial a testimonianza del nostro ricordo, gratitudine, rimorso?
Ho parlato con una cricca di cretini, quasi tutti.
 
Non è solo bello fare gli architetti è anche difficile.
 
Contro di noi ne fanno di tutti i colori.
 Per l’approvazione di un progetto occorrono una quindicina di visti, una volta ottenuti,( per chi non lo sa, ottenerli è un  percorso ad ostacoli) il nostro si chiama progetto cantierabile, ma spesso il cantiere non si apre, alcune volte rimane chiuso per sempre.
E’ bastato un gruppo di pensionati disoccupati e di signore annoiate, per bloccare il progetto del Giardino Bellini. Io, a differenza di chi non l’ha voluto, il progetto l’ho visto e capito ed era un progetto ben fatto, avremmo avuto un giardino che poteva essere un fiore all’occhiello della nostra città. Non l’ho visto solo io, lo hanno visto ed approvato tutti gli uffici competenti che l’hanno esaminato.
 Il gruppo di signore e signori è entrato negli uffici della Soprintendenza in massa e il progetto è stato in gran parte bocciato, danneggiato, sgretolato.
 
Di Carlo, un architetto che l’Italia si vanta di avere avuto, era riuscito ad avere tutte le approvazioni per il progetto del cambio d’uso della chiesa La Purità , progetto straordinario, approvato, poi bloccato, impedito da chi il progetto non l’ha visto mai.
 
Le contestazioni subite dall’architetto incaricato della realizzazione dell’arredo urbano di Piazza Teatro Massimo, da parte dei commercianti della zona sono solo la punta dell’iceberg di quanto ci fanno e ci hanno fatto.
 
 L’Inarch era riuscita, superando intoppi burocratici da manicomio, a bandire un concorso per il miglioramento , il restauro, l’arredo urbano di 5 piazze. Abbiamo partecipato al concorso, presentato i nostri progetti entro i termini fissati e tutto si è immerso nel nulla.
 
Non illudiamoci non è un fenomeno catanese, ma nazionale, in Italia tutti sono impegnati in una gara a chi frena meglio. 231.340 miliardi di euro è il conto calcolato del non fare.
 
Il male si fa sempre contro chi è più indifeso e noi lo siamo poche categorie come la nostra sono lasciate sole come siamo lasciati soli noi.
 
Ho l’impressione, suffragata anche dalle notizie di cui vi ho parlato che l’architettura che noi proponiamo non è generalmente accettata.
 
Paolo Portoghesi molto tempo fa scrisse : “ Occorre instaurare nel nostro lavoro la strategia dell’ascolto”.
 E’ possibile che tutta questa gente che non ci vuole abbia sempre torto?
 E mi faccio e vi faccio delle domande:
 
1)- Il mondo si è definitivamente globalizzato, anche nel fare architettura. A Catania sono state portate in porto realizzazioni particolarmente pregevoli, raffinate, colte, che nella globalizzazzione imperante, nella loro bellezza potrebbero benissimo stare in Danimarca. E’ giusto in una città che ha 6 mesi estivi?
 
2)- All’ Università per lo meno quella dei miei tempi ci hanno allattati con il latte del razionalismo, dell’essenzialità. Questo mito è ancora valido? O è da mettere in conto l’amore per l’inutile? L’uomo preistorico un giorno raccolse da terra una conchiglia e se la portò nella sua caverna. Solo perché era bella, anche perché era del tutto inutile, solo perché la guardava. E allora è ancora vero che “L’ornamento è un delitto?”
 
3)- Se percorro anche un quartiere popolare come San Cristoforo non posso non rendermi conto che buona parte dei prospetti che caratterizzano le strade di questo quartiere sono dignitosissimi e questo non soltanto per il fascino che emana dal passato ma anche per le decorazioni che lo arricchiscono. E’ venuto il momento anche per noi di proporre forme, scelte da noi, non solo perché sono utilizzabili ma anche solo perché sono solo belle? E se sono solo belle e del tutto inutili è giusto proporle o no?
 
4)- Non è vero che se un oggetto funziona è bello, può benissimo funzionare e fare schifo e se funziona e fa schifo la gente non lo compra, e lo stesso ragionamento viene fatto per la casa.
 
5)- Cammino per via Crociferi e mi rendo conto che l’Architettura era una volta luogo di arte, in cui collaboravano pittori, scultori, decoratori, scenografi. Forse è tornato il momento di tornare insieme, di lavorare insieme.
 
 
 
Potremmo avere la fortuna di incontrare un politico diverso, attento, colto, che voglia dare una testimonianza del suo lavoro per la città: dobbiamo essere pronti per consegnare progetti che non siano solo bianchi, soliti, prevedibili, ma siano il segno , la testimonianza delle nostre ribellioni, del nostro coraggio, di quanto in questa mostra abbiamo capito.
Se nel nostro studio entra finalmente un possibile committente che abbia il coraggio di chiedere una casa controcorrente alle patacche imperanti, non dobbiamo assolutamente farci sfuggire l’occasione.
 
L’ho già detto, fare gli architetti è gravoso, alcune volte un tormento, il più delle volte un percorso di molte sconfitte.
 
 Queste difficoltà, questi impedimenti, questa vita professionalmente difficile sono, potrebbero essere una palestra per una futura affermazione.
Perché mi chiederete voi?
Abito a pochi metri dalla facoltà di giurisprudenza e vedo entrare donne determinate, convinte, nella preparazione del loro futuro. Non c’è persona in buona fede che non riconosca che nel loro lavoro sono tutte bravissime, ostinate, piene di amor proprio.
Sorprendenti, per me che più che settantenne ricorda donne appartate.
 
Rachida, marocchina, prima venditrice di salsicce, poi benzinaia, poi laureata in economia e commercio, poi ministro della giustizia in lotta per una modernizzazione della magistratura francese,polverosa, arcaica, piena di baronie( peggio della nostra). Espone la sua pancia gravida di 6 mesi, orgogliosamente.
A nessuno( non c’è giornalista che non l’abbia chiesto) ha detto chi è il padre.
 
Caterine Deneuve ai tempi del suo amore per Mastroianni a Parigi, di fronte ad una
sessantina di giornalisti li avvisò: “Se uno di voi mi fa una domanda su Mastroianni, mi alzo e me ne vado”. Dopo 20 minuti li ha piantati in asso.
 
A Daniela Santanchè ad una domanda vagamente maliziosa sul suo successo personale in relazione al suo sexapeal lei diretta, a muso duro ha risposto:
” Io non l’ho mai data per fare carriera.”
 
Come è successo tutto questo, questo cambiamento, questa rivoluzione l’unica veramente riuscita in questi ultimi 60 anni, come è stato possibile che le donne che nell’immediato dopoguerra si sono dovute conquistare anche il diritto di votare abbiano potuto oggi conquistare la scena?
Le reporters in Irak, scrittrici di successo, registe, modelle, medaglie d’oro, ricercatrici, operaie.
Le lotte femministe in Inghilterra? Virginia Wolf ,Margherite Duras, Oriana Fallaci,Stella Pende,la Archibugi, la Adid oggi il più geniale architetto del mondo?
No, c’è stato altro.
 
E’ stata una rivoluzione riuscita perché vissuta nella spinta di un sentimento di rivalsa contro l’emarginazione, le ironie, i sarcasmi, le persecuzioni, il disprezzo di cui le donne  nei secoli sono state vittime.
 
Ora la rabbia ce l’abbiamo pure noi e siamo stufi pure noi.
 
 
La mia generazione si è caricata di ideologie, fascismo, comunismo,68, ne è rimasto solo un ricordo, un ricordo di orrori e nei casi migliori di sconfitte, un ricordo che ha lasciato vuote le nostre anime e le chiese. Siamo allarmati della parola religione anche se noi architetti siamo troppo religiosi, abbiamo dei miti che ci ostiniamo a considerare sacri, mentre ci dobbiamo rassegnarci a tradirli, per trovare e sperimentare nuove strade, inventare nuove soluzioni che fanno parte dei nostri tempi, tempi nei quali per i nostri padri. non c’è posto.
 Non c’è nessun rapporto fra Pollock e Turner, fra Van Gogh e Mathieu, è venuto il tempo di Cattelan.
Dobbiamo imitarli, collaborare, invitarli ad aiutarci.
Altre religioni incombono, anche la mia, la religione degli scettici, la religione degli atei civili, una religione che riesca a guarirci dal nichilismo che ha trovato un ideale asilo nelle nostre anime vuote.
 
Siamo stanchi, come facciamo a non esserlo quando abbiamo l’impressione di potere dire e dare un sacco di cose che non vuole nessuno!
 
 Non riuscire a trovare chi ci faccia lavorare ci sfibra, ma è in questa religione di delusi che noi abbiamo come fratelli gli artisti che come noi soffrono della diversità.
 
 E’ la nostra diversità che ci rende infelici e migliori, derisi perché sorprendenti.
I nostri amori, i nostri valori, la nostra sensibilità, trascendono tutto, anche le nostre sconfitte.
 
Ivo Celeschi
 
Catania 13 Dicembre 2008