Sconosciuto a se stesso

 

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PREMIO NAZIONALE SELINUNTE 2018

 



IVO CELESCHI. Cronaca d’un video con conferenza ovvero il ritmo irrequieto dell’architettura come poesia

18 Aprile 2017
 

Frammenti d’architettura, d’arte, di vita, di solitudine…

IVO CELESCHI – architetto e professore - artefice irrequieto e straniero a se stesso… di fronte al suo passato, al presente, al futuro: un architetto che «da vecchio continua a cercare», perché non si finisce mai di conoscere e capire, avverte un’assenza o forse più d’una… Le sue assenze sono schegge, feriscono, a partire da se stesso;  le trascrive, assenze piante e presenze superflue, in un video – dal titolo emblematico: «Sconosciuto a se stesso» – che ha la durata 16 minuti (e qualche secondo), lo spessore dell’esistenza, la cifra cinematografica d’un cortometraggio, il valore documentale d’alcuni frammenti… frammenti d’architettura, d’arte, di vita, forse anche  di solitudine…

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L’architetto Ivo Celeschi, già titolare della cattedra di Restauro presso l’Accademia di Belle Arti di Catania e autore di numerose pubblicazioni, ha curato il restauro del Castello di Leucatia di Catania, dell’ex Chiesa S. Michele Minore, della chiesa di San Nicolò a Mascalucia, il restauro e la riqualificazione della Villa Pacini e realizzato i monumenti a San Giovanni Formisano, al venerabile Capizzi e a San Giovanni Bosco.
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…frammenti d’architettura, d’arte, di vita, forse anche  di solitudine… E non sfugge ad alcuno quanto il frammento – si tratti d’archeologia o di vita – abbia importanza perché sollecita l’intelligenza a conoscere e riconoscere i tratti differenti di ciascuno al confronto con l’altro, le cesure procurate dal tempo oppure dalla mano sapiente o insipiente dell’uomo, a porlo con discernimento accanto agli altri frammenti per incastrarlo infine nel puzzle o nel mosaico, componendovi o restituendovi il senso compiuto… Non sempre il gioco riesce – nell’arte come nella vita – non sempre riesce di assemblare il puzzle, di ricostruire il mosaico, di chiudere il cerchio come suol dirsi, inseguendo, a volte invano, il solco circolare della linea che, nell’arte come nella vita, dovrebbe condurre la fine della storia a collegarsi col suo punto d’inizio.

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Ho detto: arte, architettura, vita, solitudini… si potrebbe dir altro. In realtà il testo proposto dal video di Ivo Celeschi e che egli stesso legge con voce fuori campo è ad ampio spettro, tratta di tutte queste cose, che sono, sì, cose diverse ma non sono separate fra loro, e – in una personalità libera e complessa – rappresentano elementi che corrono come in un unico conduttore, contaminandosi l’un l’altro, pronti ad aggregarsi in una riuscita sintesi oppure a deflagrare.

Scorrono le immagini e la voce fuori campo trasmette coacervi di senso, tra cui districarsi. E mentre Egli legge, Le Penseur di Rodin, evocato in fotogramma, domina l’atmosfera quasi rarefatta, al Castello di Leucatia.

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Il filmato propone parole immagini, musiche; conosceremo o riconosceremo, vedremo o rivedremo, monumenti, edifici, chiese, cupole, absidi, grattacieli, spesso gli uni vicini agli altri nella loro fisicità ma distanti negli stili e nel tempo oppure lontani nello spazio gli uni dagli altri; osserveremo scale di pietra e viandanti testardi/incerti, graffiti, colori e segni di culture underground, strade medievali attraversate da note di jazz… panorami, albe o tramonti, nuvole riprese dall’aereo che le sorvola quasi planandovi oppure vecchi giardini e panchine sgangherate… altro.

Una confessione ovvero dell’ingenuità perduta

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E mentre tutto questo buca lo schermo, l’architetto Celeschi è spoglio del suo ruolo, uomo nudo come la statua di Rodin e, a dispetto dell’apparente vigoria, dell’uno e dell’altra, la voce ha tono incerto, seppure fermo, fermo nel dubbio della domanda, quasi una confessione.

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«Ho peccato forse», riconosce, «perché della vita ho capito troppo togliendomi ogni illusione ma ho conosciuto grandi stupori sfuggendo al tedio» oppure ho peccato d’ingenuità la quale tuttavia «mi ha dato la voglia, una voglia che è rimasta intatta,  di capire il tempo che sta per venire». Una confessione che, davanti allo schermo bianco, a poco a poco prende corpo, per la prima volta, con lo smarrimento della prima volta, s’abbaglia come di luce improvvisa, si ritrae quasi per paura come gli capita innanzi alle variazioni delle tonalità cromatiche… «tutto ha un’eco dentro di me».

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Anne-Marie Zilberman, Larmes d'or

La sensazione che l’architetto-professore trasmette è quella dell’ingenuità perduta, forse tardi, forse non è la prima volta, la perdita dell’innocenza…, interrogarsi ogni giorno di cose di cui non s’è avuta a quel tempo contezza, al tempo in cui forse sarebbe stato giusto accorgersi!

Si volta indietro, l’architetto-pensatore, sguardo a ritroso, le assenze si fanno sempre più pesanti, più presenti, più pregnanti; le certezze sfumano… davanti all’intelligenza attonita, costernata, tragicamente e paradossalmente felice, dinanzi alla scoperta, drammaticamente irrequieta, ironica, sarcastica, a seconda… icastica: «tutto ha un’eco in me», corpo, luce, colore, rumori…

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Ma chi ha detto che il passato è lì, statico, immobile nella sua fissità? Mentre il Nostro architetto ci dice del suo video, continuo a osservare nella mia mente Rebecca al pozzo nella rappresentazione di G.B. Piazzetta e mi confermo nella scoperta d’un’intenzionalità inedita, Eleazaro e Rebecca, l’uno qui non è servo-messia, l’altra qui non è destinataria della promessa di nozze di Isacco…

Qui, Eleazaro e Rebecca – come soli nonostante coralità, ancelle e cammelli – sono protagonisti d’un insieme allusivo che oltrepassa lo stilema della classica tradizione sacra a questa ribellandosi con la raffigurazione di Rebecca che s’erge nella pienezza della propria femminilità, sopraffatta dalla domanda inespressa che, incredula, rivolge a Eleazaro, fissandone gli occhi che la guardano con sfumatura d’incanto profano…

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libero arbitrio

«Siamo uomini liberi?», si interroga Celesci. Siamo certi d’essere stati noi stessi, e solo noi, arbitri del nostro destino? Le nostre azioni, le convinzioni, la spinta che ci ha diretto sono frutto del nostro pensiero o non sono stati piuttosto dettati da «giudizi e pre-giudizi che altri hanno formulato per noi»?

«Il passato mi ha assatanato l’anima di convinzioni che non sono mie»! confessa il Nostro quasi con rabbia, con amarezza, biasimandosi dell’ingenuità… E allora «io chi sono?»: libertà in esercizio o frutto della «violenza del passato, di influenze che vengono da lontano – mio padre, mio nonno… – e che non sono mie», allo stesso modo in cui analoghe influenze non sono nostre, di ciascuno di noi, ma ci hanno condizionato con la forza del «patrimonio genetico»?

La ribellione, il viaggio

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Salvatore Albano, Gli Angeli Ribelli

«Arriva un punto dell’esistenza in cui prendiamo coscienza di ciò e finalmente ci ribelliamo e, ribellandoci a ogni forma di pressione esterna subìta, cominciamo a camminare da soli, a pensare autonomamente, ad agire da uomini liberi».

Ribellarsi: «sete di vivere ancora per sperimentare, sete di futuro; ripartire, intraprendere un nuovo viaggio perché vivere non è ricordare  ma scoprire che cosa c’è oltre l’orizzonte che s’è dilatato».

«Ma riusciremo finalmente ad essere uomini liberi?»

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Giorgio De Chirico, Le muse inquietanti

L’inquietudine, l’irrequietezza, l’ansia, domande senza risposte, risposte inesaustive, sono una spinta tenace, caparbia quasi violenta che manifesta intenzione, determinazione di penetrare ancora nello spazio appena incoato del futuro, quasi lo forzasse, il futuro, come portone resistente d’una fortezza inespugnata, dove scorrono pensieri in libera uscita, musiche, suggestioni fantastiche e miraggi reali, e parole ragionate intorno a disegni, grafici, progetti, idee, speranze, voglia di cambiamenti: una metafora dove arte e bellezza, architettura e vita, «note di jazz e stradine medievali» si fondono in una sintesi inesplorata che, queste suggestioni, contaminandosi, le contenga tutte… con il loro fardello di incomprensioni, domanda senza risposte, risposte a volte inutili, inefficaci… perché ognuno deve fare, agire, pensare da se stesso, liberandosi da quelle formule innate che ci sono state tramandate da altri, a priori dentro di noi… ma senza di noi,  che a volte ci sono sembrate venire dal di dentro… e invece.

Il passato eterno

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Carlo Carrà, Il movimento del chiaro di luna

Guarda al passato Ivo Celeschi, ma la sua mente, la volontà, la coscienza sono proiettate nel nuovo viaggio da intraprendere, attratte dal futuro dove, a dispetto d’ogni novismo ignorante e irriguardoso, il passato – quello eterno – ci sta tutto e continuerà ad esserci… perché – com’è stato acutamente osservato – se abbassi il chiaro di luna, come predicavano i futuristi, cosa resta del cielo?.

Resta il cielo, per l’appunto, come resteranno sempre nel futuro cupole, absidi, palazzi, monumenti, ruderi, altro, che il passato ci ha consegnato e continuerà a consegnarci, a noi, ai nostri figli e nipoti, a chi verrà dopo, e che non tramonterà mai e che, perciò, sarà sempre così, sempre futuro!

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Il Castello d'Aci Castello

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La Chiesa dei Minoriti, Catania

Il futuro del passato: come noi stessi, che siamo, che siamo diventati il futuro del nostro passato, quello cui pensavamo quand’eravamo giovani, inaspettatamente arrivato in questo nuovo spazio del tempo e nel quale – quasi colti in una senile perdita d’innocenza – ci accorgiamo che continuiamo a scorgere il panorama d’allora, interni ed esterni, i luoghi dell’anima e quelli del corpo, i luoghi che abbiamo abitato e continuiamo ad abitare, che sono loro ma non sono gli stessi, che abbiamo percorso cento mille e ancor di più volte, dove, in genere per caso, abbiamo amato, gioito e sofferto, pianto e riso, dove siamo invecchiati, come Catania per caso per Celeschi, anche se non è la sua città d’origine… con la Cattedrale, la Chiesa dei Minoriti, l’Anfiteatro romano, il Castello d’Aci Castello nei dintorni, altro…, «un’armonia ineguagliabile», che non può guardarsi – ora come allora, oggi come domani – senza ammirazione… «[...] tutto era materiale ricavato dalla terra, pietra lavica, pietra da taglio. sabbia lavica, terra bruciata dal calore della lava, argilla, tutto, utilizzato in una tecnologia limitata, che ci ha dato come conseguenza architetture di un’armonia incomparabile [...]».

«Essere se stessi dopo essersi riconosciuti»

Che se non fossero stati di quei tempi –  osserva Ivo Celeschi – un Vaccarini, un Battaglia, un Malerba, altri, forse sarebbero stati «più audaci, più folli, più liberi di quanto non riuscirono ad essere, di quanto non diventammo noi stessi».

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Negozio Frigeri, Via Manzoni, Catania

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La Cattedrale di Catania

In realtà anch’essi a loro modo lo furono, si pensi – ricorda Celeschi – al fabbricato di Tommaso Malerba situato alle spalle della Basilica della Collegiata di Catania, una «gemma liberty» [Negozio Frigeri] ch’egli non esitò ad appoggiare al sistema absidale della basilica di stile tardo-barocco, realizzando nei primi anni del Novecento un insieme misto di «libertà ed eleganza» che mentre non trasmette senso alcuno di violenza rispetto al passato allo stesso tempo rende concreta «la ribellione» rispetto ai vincoli e ai condizionamenti dell’a priori.

La medesima voglia di cambiamento  aveva spinto Vaccarini, secoli prima, a progettare in stile settecentesco il rifacimento della Cattedrale distrutta dal terremoto del 1693 resistendo alla forza di quel passato tracimante nella forma e con «la forza ineffabile consistente commovente» di quelle absidi nelle quali s’avverte tutta quanta «l’austerità e la potenza del medioevo»!

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La Chiesa di Sant'Agata al carcere

Sono tanti gli esempi che incrociamo – prosegue Celeschi – in una passeggiata per la città. Battaglia per esempio «ha incastrato nel prospetto settecentesco della Chiesa di S. Agata al Carcere – che è equilibrato nella sua composita, misurata, controllata architettura – un portale medievale, nettamente medievale» tutt’altro che impaurito, il Nostro, dal dovere d’attenersi a una armonia formale dalla quale infatti egli si allontana per «essere se stesso dopo essersi riconosciuto», come avevano fatto Vaccarini, Malerba, come farà Curzio Malaparte commettendo ad Adalberto Libera la progettazione – alla quale egli non restò estraneo – della propria casa a Capri.

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Celeschi si sofferma sul punto. Anche la sua apertura alla modernità avanzante sembra per un momento vacillare di fronte a questa costruzione che Malaparte volle e che manifesta in evidenza, fin troppa evidenza, un carattere irriguardoso e la determinazione pervicace, ostinata

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Villa Malaparte, Capri

finanche violenta, indifferente alla totale mancanza di rispetto che essa introduce con l’atmosfera isolana, la sua quiete, l’ambiente riposante, i colori sfumati dell’orizzonte, pure con l’aria che respiri…

L’armonia, Curzio Malaparte, la realizzò con se stesso, con l’idea di una vita non comune, «una casa come me, una vita come me, un lavoro come me, scelte che siano mie»; Celeschi insiste sul punto, c’è un che d’autobiografico in questa sua rappresentazione, un sentimento profondo e una convinzione finalmente maturata, rinnovata in consapevolezza: ingenuità denudata, innocenza perduta!

La tecnologia, l’affronto… «andare da soli senza rimorsi»

Vennero – come verranno, come sono venute – le avanguardie, e continueranno a sopraggiungere, a sopravanzare; sono i nuovi linguaggi, nelle lettere come nelle arti, nella vita come in architettura, dove «la potenza della tecnologia trova forse la sua più felice, libera, creativa espressione».

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Quale senso di perfetta armonia – sottolinea Ivo Celeschi al riguardo – non sprigiona l’insieme della Stazione di Roma Termini? Essa venne progettata e realizzata in un momento di gioia, di slancio, di speranza del secondo dopoguerra, con «l’accostamento affascinante» fra la sua pensilina in cemento armato, modulare, sporgente, essenziale, semplice, e il rudere della fortificazione difensiva d’età romana, fra «la testimonianza» dell’angoscia d’invasioni barbariche e la vitalità del transito di viaggiatori moderni, mentre un coro architettonico classico di fronte la Stazione con la sua ripetitività tecnologica, spaziale, funzionale – le Terme di Diocleziano, Piazza Esedra, Santa Maria degli Angeli – contribuiscono a conferire all’insieme – conclude il Nostro al riguardo – «un fascino senza eguali», il ritmo dell’ «architettura come poesia».

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Norman Fosteer, Il Cetriolo di Londra

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Frank Gerry, Casa danzante, Praga

La tecnologia, prosegue il Nostro, ha aperto spazi smisurati alla possibilità di fare, quasi senza più limiti, e «l’architettura è la scienza, l’unica arte ad esaltarsi così fortemente nella tecnologia», che maggiormente utilizza le tecniche moderne, ne sfrutta le potenzialità – «sbalzi coperture spazi al limite di ogni avventura…» –  in una libertà quasi assoluta e tutto questo può sembrare «un affronto» alla memoria, allo stesso modo in cui – nell’ansia di libertà che lo sospinge – può sembrare «un affronto la scelta del figlio che, per andare da solo, si ribella al padre lasciandolo pietrificato dalla delusione e dallo sconforto… per andare da solo, da solo… e senza rimorsi».

E così sono andate da sole – da sole e senza rimorsi – generazioni successive d’architetti come

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Renzo Piano, Beaubourg, Parigi

Norman Foster, Frank Gery, Renzo Piano, altri, ricorda Celeschi. Succederà poi ancora una volta che anche tutto questo  - avanguardie architettoniche come quelle giovanili assorbite nelle metamorfosi degli anni, dei secoli – tutto questo diventerà nel tempo a venire anch’esso passato, memoria, storia, e potrà apparire armonia - «armonie incomparabili» - che adesso non capiamo, «un passato di alternanze» che un giorno forse capiremo se, fieri di non stancarci, continueremo il nostro cammino di disincanto, col coraggio di depositare strada facendo, come larva consumata, ingenuità e innocenza, coltivando semi di ribellione necessaria a migliorarci, a cambiare  per continuare a sognare, intravedendo il miraggio di un mondo migliore.

E tutto ricomincerà daccapo, come nel solco della circolarità della linea che ricongiunge la fine d’ogni storia al suo punto d’inizio…

Il disincanto

Conclude l’arch. Celeschi:

«Me ne vado ogni tanto, perché se vivere è un viaggio  cerco di capire, prima che il mio viaggio sia finito. Appena mi allontano è come un risveglio, tutto ha un’eco in me, la strade, i grattacieli, i rumori, la stanchezza, le città, la solitudine mi danno una tensione che mi dà la forze per capire quello che prima non mi ero chiesto [...] scoprire che il futuro è una realtà aumentata [...]. Partirò ancora, fino a quando potrò, per trovare. Fra non molto saprò che non ho niente da dimenticare, continuerò ad amare le mie incantevoli tristezze, a riempire le mie memorie di ricordi che non diventeranno mai passato, rimarrò così un uomo che come tutti sarà  per se stesso sempre uno sconosciuto».

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Trovare, conoscersi, riconoscere se stessi, l’altro, l’universo; dramma antico e sempre contemporaneo quello della conoscenza di sé e degli altri, dell’universo e delle sue leggi meccaniche e perfette ma nel contempo incontrollabili e assurde, col fardello di angoscia, paura, peccati, desideri, passioni, speranze, che conoscenza e universo portano con sé, i problemi maledetti dell’uomo che non s’acquieta dinanzi all’inevitabilità, impenetrabilità del reale, della vita, dell’amore, della morte… Rimase deluso Michelangelo nelle mid1 300x199

notti insonni davanti al suo Mosè, lo rivediamo battere il suo scalpello sul ginocchio dell’immensa statua posta a sigillo del sepolcro di Giulio II e chiedergli – implorante e corrucciato, quasi iroso – «Perché non parli?», implorante, corrucciato, iroso, tanto forte era l’ansia di coglierne la vitalità, l’attesa di riconoscervisi, in quel manufatto d’arte, d’architettura… di vita, l’ansia di riconoscervisi e d’esservi riconosciuto; ne restò deluso, di quel silenzio infinito, sordo, indifferente né, durante la vita, ebbe modo d’udire mai la voce di Mosè rivolgerglisi, ignorando tuttavia che, a dispetto della vita vissuta e della morte apparente, nei seicento e passa anni successivi le generazioni seguenti fino ai nostri giorni, quel Mosè, l’avrebbero sentito dire tante cose sul suo artefice e sulla sua irrequietezza!

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Cristo Pantocrator della Cattedrale di Cefalù, Palermo

Noi abbiamo sentito d’Ivo Celeschi e della sua irrequietezza, della voglia di vita che è voglia di futuro, della sua speranza di capire il tempo che sta per venire, un architetto che «da vecchio continua a cercare» reagendo alla tentazione di fermarsi, cullarsi nella nostalgia o assopirsi nella sedentarietà, rifugiarsi in un passato che sarebbe privo di vita, come arrendersi al tempo che, in fondo, sarebbe decisione di finire, finire anzi tempo mentre «il futuro s’è dilatato» e c’è ancora altro da capire, saperi da apprendere, conoscenze da approfondire, tecniche da sperimentare, sensazioni da percepire, sentimenti da provare, dolori da soffrire, tempeste cui resistere e tentare di sopravvivervi, strade non ancora solcate da percorrere… anche un Dio cui affidarsi seppure nell’assenza della fiducia a credere in un Dio impegnato a proteggerci!   

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Galilei dal Granduca Cosimo II.

Ma poi, «quale Dio»? si chiede Celeschi. Anche la storia dell’architettura sacra – come quella della filosofia o della teologia – ci dà rappresentazione della diversità dello stesso Dio, egli precisa, si tratti dell’evidenza certa, immediata di «quello della Collegiata con le sue navate, gli affreschi al soffitto, le colonne, la striscia per terra, la luce», oppure di quello seminascosto della Badia di Sant’Agata che sembra «venir fuori dal dubbio che ci ha insinuato Galileo Galilei».

Il dubbio, la ricerca, l’incerta circolarità della linea che dovrebbe condurre a ricongiungere la fine d’ogni storia al suo punto d’inizio, il disincanto infine, tutto sembra convergere nella composizione d’un ritmo alternato, irrequieto, che – a partire dall’architettura – accompagna il volgere della vicenda umana come una poesia a schema libero.

È la vita e non la morte a non avere confini

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Bertrand Lavier, Panton sur réfrigérateur, 1989

Ero giovane decenni addietro quando, all’ingresso del Palazzo tardo-barocco del Municipio d’Acireale, un artista installò come opera d’arte, in occasione d’una Mostra,  un bianco frigorifero sovrastato da sedia in plastica di colore rosso. Pensai a un imbroglio, a un affronto, lo stupro del barocco – commentò qualcuno – e il dubbio mi rimase fino a quando in visita al Beaubourg qualche anno dopo ebbi ad imbattermi nella stessa opera esposta ad Acireale, stesso artista, Bertrand Lavier. Compresi allora che qualcosa m’era sfuggita nella comprensione della contemporaneità… E forse, allora, non era ancora troppo tardi!

E forse non è ancora oggi troppo tardi, adesso, decenni dopo, a settant’anni, avendo visto il filmato di Celeschi, non è ancora troppo tardi avere ripreso memoria e acquisito coscienza d’alcune righe che lessi quand’ero ancora giovane e che forse allora non compresi e cioè che è la vita e non la morte a non avere confini, come non l’ha forse questo filmato di Celeschi o, se volete, i confini ce l’ha – come ogni cosa a questo mondo – ma sono stasera in tv lamore ai tempi del colera su rai 3 2 300x199sfumati, lontani, al limitar dell’orizzonte lì dove il cielo sembra ricongiungersi all’Oceano.

Una metafora, che si combina in felice coincidenza con il racconto dissimulatamente accorato che fa Celeschi a proposito della Fornarina di Raffaello, la figlia del fornaio trasteverino così distante in apparenza da lui, uomo importante, di successo, ricco, noto, conteso dalla migliore aristocrazia del tempo

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La Fornarina

che, invece, scelse Lei che Egli amò a tal punto da dedicarle una delle sue migliori rappresentazioni –  con la gemma, il bracciale inciso (Raphael Urbinas), l’anello, come dicesse: «è la mia donna – in un quadro che riservò a se stesso, senza cederlo ad altri, per quanto richiestogli, egli stesso da Lei ricambiato con una dedizione totale che la condusse, ancorché richiesta da altri in sposa, a finire la sua vita in convento».

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Celeschi ripete nella sua mente un gioco che faceva da bambino in campagna – un bambino del ’32 – cioè il lancio, il più lontano possibile, d’una canna di bambù appuntita con temperino… S’accostava, quindi, al punto in cui essa s’era conficcata, scoprendo ogni volta d’avere sempre colto qualcosa, una foglia, una bacca, una zolla… Quel gioco del lancio d’una canna di bambù, ancora oggi – quel bambino del ’32 divenuto anziano signore – nella sua mente lo ripete e non manca, ancora oggi, d’accorgersi d’avere ancora colto qualcosa…!