Giacomo leone

Per Giacomo

Nessuno come noi sa quanto deve essere  grande il dolore di vedere un nostro lavoro, pronto per il cantiere  perché approvato da tutti, iniziare i lavori e vederlo poi abbandonato, depredato, incendiato a poche decine di metri da un posto di polizia.                                                                                                                                              La nostra è una professione con un’alta percentuale di sconfitte, dovute all’imponderabile: si riuniscono in branchi, consigli di quartiere, ambientalisti, giornalisti, avvocati assessori,( magari verdi  tanto per dare una colorata a un minimo di onorabilità) solo per fermarci. E preti, sì, anche un prete, che come tutti i mediocri, sentenzia su tutto senza sapere nulla. Anch’ io : ho capito tardi, che Giacomo progettava come un restauratore, e restaurava progettando.

Era innamorato, non come è capitato a tutti noi, no, era innamorato della sua terra, della sua città. Per questo le sue opere migliori sono il risultato del suo talento e nello stesso tempo dell’attenzione, della cura con la quale sceglieva i materiali con la volontà di non snaturare lo spazio in cui si stava inserendo.             Un comunista innamorato: lo si capiva  per l’austerità dei suoi progetti sempre tesi all’essenziale, sempre scegliendo una tecnologia elementare, riconoscendo la passione con  la quale ha diretto i suoi cantieri a Librino, ascoltando la gente, progettando con loro.

Si risentiva quando si rendeva conto dei tentativi sempre riusciti di colonizzarci proponendo archistars che non sapevano nulla dei nostri problemi, aspirazioni, gente, nulla.

 Gli telefonavo e  mi sfotteva chiamandomi – giovanotto! Forse perché io cercavo di dimostrargli la necessità dell’inutile, che lui aborriva, sostenendo la morte dell’Architettura. La sua austerità avversata in gran parte e sostituita dall’avventura, imprudenza, gioco.                                                                                       Se ne è andato anche lui.                                                                                                                                              Scrivo di lui, con lo stesso riguardo con cui si mette sul  comodino il ritratto di un proprio caro che non c’è più. E’ un tipo di sentimento che dovremmo scambiarci quando siamo vivi. Non capiremo mai, e quando lo capiamo, lo capiamo sempre troppo tardi, solo nei ricordi. Tutti, anche il giovanotto.

Ivo Celeschi.

Catania 03/02/2016