Inaugurazione dell'Albergo Romano House.

L'architetto Antonio Iraci e il suo albergo.
 
Questo albergo è la prova di come la volontà dei committenti da una parte e la collaborazione dell’architetto dall’altra riescano a realizzare una trasformazione graduale il più delle volte a favore dell’ambiente circostante. Una trasformazione che appare particolarmente vistosa quando l’ambiente circostante è fortemente caratterizzato, come nel nostro caso ( siamo a poche centinaia di metri da Via Delle Finanze).
Un architetto che sa ascoltare e tradurre.
Progettista e committenti, l’hanno voluto così, aperto. Bar e ristorante non è ad uso privatizzato, solo ad uso degli ospiti dell’albergo ma a servizio di  tutti, diventa luogo di incontro, un incontro cittadino, di pausa, di tempo libero, di ospitalità qualificante, come sempre dovrebbero essere idealmente alcuni spazi  della città e come spesso non sono.
 Spesso.
L’avete letto sul La Sicilia come stanno furoreggiando le proteste dei cittadini contro l’occupazione della gente, in massima parte giovani che si siedono, si ritrovano, nei luoghi del centro storico. Una protesta che sta montando sempre più, come se il centro storico dovesse essere un eremo apparentemente disabitato, privato, appartenente solo ed esclusivamente a chi lo abita.
 
La mentalità di questa realizzazione pervade tutto. Quante volte, fin dall’Università, abbiamo studiato, memorizzato che l’Architettura è anzitutto spazio?
Qui appena entrati, fatti pochi passi si è sorpresi da uno spazio alto, che nella sua luminosità voluta, ingloba tutto, corridoi, stanze, percorsi, vuoti, pieni, e da questo la possibilità continua di affacci, sulla hall, sul movimento della gestione dell’albergo, il ricevimento degli ospiti, la gente che arriva, la gente che parte.
 E’ uno spazio che incuriosisce, penetra, contiene, rispettando il passato da cui l’edificio proviene.
E’ ammirevole come il presente, il nuovo in tutta la sua volontà, la sua concettualità, nei suoi materiali si intrufola sotto le volte, fra gli archi, inalterando, con le scelte del nuovo con tutte le sue risorse, con la sua avanzata tecnologia, un nuovo che arricchisce il passato, ed un passato che impreziosce con i segni della sua storia, il nuovo.
 
In alcune stanze le volte sono affrescate. Era il tempo in cui si realizzava l’elogio dell’inutile. La fissazione, il tormentone della razionalità ad ogni costo, ancora in questa città non era arrivato. E allora, questi affreschi, queste scene, che la nostra cultura di razionalisti post sessantottini ha disprezzato, rendono le stanze, ancora più eleganti, adopero questa espressione con sfrontatezza, meglio aristocratiche, ancora peggio.
 
 Giò Ponti era un architetto che amava  i materiali in tutte le loro possibili apparenze, ci spiegava che il materiale in architettura ha diverse realtà, se un blocco di marmo lo si taglia secondo una direzione appare secondo una realtà, realtà che cambia se il taglio avviene secondo una direzione diversa. Svelare il materiale in apparenze sorprendenti è ancora una volta uno strumento che Iraci ha scelto, perché è qui che interviene la strategia del materiale, un essenza povera come il rovere trattata con il poliestere che involucra con la sua brillantezza i disimpegni, le stanze da letto, funzioni diverse e interdipendenti, percorrere, dormire, appartarsi, rilassarsi. Nello stesso tempo è la cornice ideale della testimonianza pittorica di un passato, irripetibile, colorato, fantasioso, ingenuo, libero da preconcetti, da limiti, da complessi.
 
Probabilmente molti di voi conoscono Pistoletto, pittore. Ebbe a suo tempo un’intuizione geniale. Ad un certo punto del suo percorso professionale, cambiò supporto, cominciò a dipingere non più sulla tela, come tutti, allora, ma sull’acciaio lucidato a specchio. Un supporto che grazie al suo trattamento, rifletteva e dato che non era proprio specchio deformava, appena.
Dipingeva iperrealisticamente, scene di vita quotidiana, per esempio due ragazzi che davanti a tutti, si abbracciano o si baciano.
 
( Ai miei tempi, quando ero ragazzo quando lo facevamo nei giardini pubblici lo facevamo di nascosto e c’era sempre un carabiniere magari infrattato dietro un albero che interveniva, ci interrompeva, probabilmente dopo essersi arrapato spiandoci.)
 
 I due protagonisti del quadro di Pistoletto erano dipinti spostati verso un lato della lastra, il resto della superficie specchiante era libero. E allora cosa succede, in che cosa consiste l’intuizione? Se io mi metto davanti al quadro per guardarlo, mi accorgo che entro nel quadro essendone rispecchiato, e allora il quadro non è mai lo stesso, perché ruba, si impossessa, contiene tutto quello che avviene di fronte a lui, l’inserviente che passa l’aspirapolvere, i ragazzi di una scuola accompagnati dagli insegnanti, che entrano nel quadro componendosi con i due ragazzi che si scambiano effusioni.
Non solo. La scena dipinta appare come la vera realtà, mentre la scena riflessa appare dall’acciaio leggermente deformata. Il racconto virtuale perché dipinto è il vero protagonista, è la verità, la realtà circostante è volutamente retrocessa, dubbiosa.
 
E così Carlo Mollino, che progettando il teatro regio di Torino, ha fatto largo uso questa volta degli specchi: l’architetto voleva che l’ambiente del passato circostante, muri ricchi di storia, entrassero immutati grazie alle superfici specchianti, negli spazi interni, due realtà passato e presente che si raccontano fra di loro.
E’ uno strumento applicato anche qui, nell’albergo di Iraci, percorrendo i corridoi, o immettendosi nello spazio della hall. Noi non siamo più estranei, ma facciamo parte delle volte, pareti, archi, siamo parte del tutto, perché insieme a tutto ci rispecchiamo nelle superfici specchianti posizionati nelle parti strategiche dell’albergo, in fondo ad un disimpegno, in un angolo improvviso, lungo alcune strutture. E allora tutto si moltiplica, si mescola, sorprende, si anima.
 
Bruno Zevi, geniale e coraggioso critico e storico dell’Architettura una volta mi disse che io come tutti gli architetti mi lamentavo. Lo faccio anche ora, anche con voi perchè facciamo parte noi architetti delle categorie maggiormente umiliate. Giacomo Leone disse in una particolare circostanza:”Siamo stufi di vedere i nostri quartieri imbrattati da un’edilizia progettata da architetti che vengono dal resto dell’Italia, approfittando delle loro conoscenze e dei nostri complessi”.
 Per esempio (e questo lo aggiungo io): mi trovavo di fronte ad un negozio di Corso Italia inaugurato da poco. “Bellissimo questo negozio”, mi sono sentito dire da uno sconosciuto,” Si vede che è stato progettato da un architetto di fuori.”
A Giacomo Leone in quella circostanza Paolo Portoghesi rispose: “ Le ricordo che Roma chiamò Michelangelo, da Firenze, perché Catania non dovrebbe fare altrettanto?”
A Paolo Portoghesi sfuggì allora che gli architetti che prendono l’aereo per realizzare nella nostra città i loro progetti, non sono chiamati perché propriamente michelangioleschi ma per altri motivi.
 
 Il caso di De Carlo è a parte.
 
Iraci parte, e progetta a Belgrado, Treviso, Napoli, Reggio Calabria, Cosenza, Taranto, Milano, Pesaro, Padova, Cagliari ,Roma, case, barche, di tutto, e io di questo sono grato. Non mi lamento più, per stasera, ma pensare che uno di noi, giovane, non parte per emigrare, ma perché chiamato in città diverse dalla nostra, perché stimato, è cosa che mi riempie di gratitudine, tutti noi di orgoglio.
 
Una volta un professore della facoltà di ingegneria mi disse:” Ma tu come fai a non vergognarti a disegnare case?” Essendo professore universitario probabilmente non sapeva dell’esistenza nella nostra storia della Ville Savoy, della Casa sulla cascata, delle case di Neutra, delle palazzine di Gaudì.
Noi architetti ci distinguiamo anche per la tipologia dei nostri committenti. Chi progetta per una committenza di privati, come Iraci è un uomo che non ha la pazienza di iscriversi ad un partito, la pazienza di accumulare conoscenze, presidenti, sindaci, assessori, governatori. E’ chiamato solo perché stimato, conosciuto solo perché bravo, e lavora in collaborazione con i suoi clienti, ascoltandoli, prendendo idee, portandole nel suo studio, e trasformandole in progetto. E’ un tipo di uomo che non sopporta la condanna ad essere simpatico, una condanna che per molti di noi è un vero tormento.
Ho finito, voglio solo ricordare a tutti noi, una battuta che in America ripetono spesso: “ The things we make, make us.” Le cose che costruiamo, costruiscono noi. Cerchiamo tutti noi di costruire cose buone, per essere migliori.
 Per costruirci.

Ivo Celeschi 
 
Quanto sopra è stato detto in occasione dell’inaugurazione dell’Albergo Romano House in Catania progettato dall’architetto Antonio Iraci.
La serata è stata voluta ed organizzata dall’INARCH Sicilia, nella persona del suo Presidente, architetto Franco Porto.